Dodos Never Say Die

Sembra ieri che io e il dodo vivevamo circondati di scatole, a fare il gioco del “trova il maglione”, stretti stretti in pochi metri quadri.
Sembra ieri perché, effettivamente, era ieri: circondati di scatole, stretti in pochi metri, ci siamo messi di nuovo a giocare a “trova il maglione”, solo che la casa non è quella di febbraio e al posto del maglione cerchiamo le t-shirt, che col caldo di questo maggio, maglione equivale a tartarughe sotto le ascelle.

La mia quarantena io l’ho passata col dodo, con tuuuutto quello che questo comporta. Si potrebbero trovare molti attributi per descriverla (bizzarra, diversa, rumorosa, snervante, eccentrica, psicologicamente-destabilizzante-che-quasi-chiamavo-la-neuro), ma sicuramente è stata piena di amore e vuota di noia. Non credo ci si possa annoiare con un animale domestico telepata, estinto, e goloso di pesce rancido (sob!).

Mi ha tranquillizzato vedere come il pennuto conservasse il suo solito aplombe, nonostante la tensione che ci circondava e la mia presenza costante: forse quando sei abituato alle minacce di estinzione… o più probabilmente, non è aplombe, è solo brillante come un cesto di vimini.
Io, dal canto mio, ho mantenuto la calma per tutto il tempo. Qualcuno millanta di avermi sentito urlare: -Moriremo tuttiiiiiiiii! – a martedì alterni; mentono per invidia, è un complotto delle multinazionali.

Non tergiversiamo e parliamo delle cose importanti, dando a Cesare quel che è di Piero, e alla gatta che va al largo un salvagente, che non si sa mai.
Io e il pollifero abbiamo fatto molte cose in questo periodo, ne abbiamo approfittato per conoscerci e studiarci. No, bugia: io non potevo uscire e lui non poteva ficcanasare per casa in mia assenza. Ci siamo dati sui nervi, questa è la verità. Ma abbiamo anche trovato tanti punti d’incontro, e ci siamo divertiti da matti. Almeno io sì, su di lui qualche dubbio ce l’ho sempre…

Ma come lo passi il tempo quando l’asocialità diventa un obbligo e hai un coinquilino come il mio? Bé, io qualche modo l’ho trovato: alternativo, magari un po’ bizzarro, ma molto molto efficace. Vediamone qualcuno:

  1. Giochi di società, in particolare gli scacchi. Si tratta di un gioco facile da oganizzare, ma sconsiglierei di farlo a persone che hanno pollame come coinquilino. Le bestie di questa specie, infatti, sembrano reagire tutte come il famoso piccione scacchista: si narra che, dopo aver spostato pezzi a caso ed essere finito sotto scacco, il sommo gettò tutto all’aria e prese a passeggiare sulla schacchiera, tronfio, affermando di aver vinto.
    Ho un emulatore nella mia casa.

  2. Sport, in particolare dodurling e salto della corda. Quest’ultimo sport, che tutti abbiamo provato almeno una volta, cadendo rovinosamente o perdendo un polmone, è un’impresa particolarmente interessante se fatta con una creatura pesante, ingombrante e agile come una nutria morta. Senza scendere nei tristi dettagli, diciamo che a un certo punto mi sono ritrovata con una braciola di dodo.
    Il dodurling, invece, è una rivisitazione del più noto curling in cui, al posto della teiera di granito (dalla regia mi dicono che… non è una teiera? ah, no? Ah.), si usa il dodo. Per agevolare lo scivolamento, ovviamente, è stata predisposta una pista di sacchi per l’immondizia, debitamente ricoperti di acqua e sapone. Attenzione a non mettere muri o cancelli all’estremità: se non siete pratici nel rallentamento, vi ritrovate il logo MGM con un becco al posto di una criniera.

  3. Canzoni dal balcone. Lo facevano tutti, come facevo a spiegargli che non si può? E così l’ho bardato meglio che potevo (alla fine sembrava E.T., che fingeva di essere Gertie, che fingeva di essere un fantasmino), e l’ho portato sul balcone a cantare. Avrebbe potuto scegliere Azzurro, o Il cielo è sempre più blu, e invece no: ha cantato la colonna sonora di Indiana Jones, con il suo solito immancabile “Blblblblbl”. Dovreste sentirlo…

  4. Momento Masterchef. Come tutta Italia, anche io e il dodo abbiamo sentito l’esigenza di metterci a cucinare, per un motivo basilare e molto mainstream: la fame. E così, mentre un paese intero diventava panettiere e pizzaiolo, noi due ci siamo dati alle marmellate, ai liquori – a ciascuno il suo – e alla pasta fatta in casa. Segnalo che, ad oggi, nessuno è rimasto intossicato nel processo. Vorrei ritagliarmi un secondo per ricordare quel meraviglioso momento in cui il dodo ha tentato di impastare farina e acqua per fare gli gnocchi. Mi ha obbligata a mettere una sedia contro la cucina, perché potesse salire e vedere; si è tirato su le maniche – di abiti che NON HA! – e ha iniziato ad impastare come se stesse massaggiando qualcuno. Dieci minuti dopo, era giù dallo sgabello che sbraitava in dodese, agitandosi per casa, perché aveva tutte le piume appiccicate. Mi ci sono volute due ore di spazzola e acqua tiepida per ripulirlo.

  5. Tessitura assistita. Se c’è una cosa in cui il pennuto è portato, quelle sono le attività che coinvolgono i filati. Non si sa perché, non si sa come, eppure è una delle sue doti segrete. Ho approfittato, gli ho messo in mano un gomitolo, e abbiamo iniziato ad intrecciare. Dovrei dire HA iniziato ad intrecciare, perché in fondo io sono rimasta seduta in poltrona, a guardare Netflix, limitandomi a far passare il filo in orizzontale, mentre lui sollevava i fili verticali. Alla fine, senza nemmeno sapere come, è venuto fuori un Van Gogh.

    Di base, teniamo duro e non ci facciamo abbattere: siamo dei sopravvissuti, l’estinzione non fa per noi, e questo è solo un altro capitolo della storia. Dodos Never Say Die.

    Ci siamo fatti una promessa, in queste settimane: al prossimo Capodanno brindisi banditi; molliamo tutti e ce ne andiamo a festeggiare su uno yacht, cantando
    Maracaiboooo
    balla al barracudaaaaa
    si ma balla nudaaaaaa,
    Zaza.

Dodo in scatola

Houston, abbiamo un problema.
Il mio dodo domestico – dodomestico, per semplicità – non vuole traslocare. Non che io glielo abbia chiesto, figuriamoci; era previsto che accadesse, e non ho pensato fosse un problema per lui. Mi ero illusa che, come qualunque altro animale da compagnia, si sarebbe limitato ad osservarmi e ci avrebbe messo un po’ ad abituarsi al nuovo ambiente; di certo non avevo valutato di coinvolgerlo nel processo decisionale. Ma no, lui no: quando ha intuito cosa stava accadendo, si è messo di punta e ha iniziato le proteste.

Tutto è cominciato quando mi ha visto fare i primi pacchi: all’inizio ha pensato si trattasse di un nuovo gioco e ha fatto amicizia con gli scatoloni, studiandoli da vicino con fare profondamente felino. Per ore, mentre fissavo abbattuta la mole immensa di cose che devo impacchettare – pur vivendo in un monolocale sono riuscita ad espandermi come l’universo, e come l’universo continuo a farlo – il palmipede ha giocato sereno, credendo di nascondersi e di stupirmi ogni volta, ignaro del fatto che, se non si accovaccia, il suo sederone esce dai cartoni, tradendolo.

A un certo punto, quella misera lampadina sbeccata che ha nel cervello deve aver fatto contatto: ha capito che in quegli scatoloni ci stavo mettendo cose, le mie cose, e in un attimo mi ha dichiarato guerra.
Gli occhi si sono istantaneamente ridotti a due fessure, l’andatura si è fatta fiera e marziale e, in men che non si dica, me lo sono ritrovato con lo scolapasta in testa e il bastone appendiabiti in mano, a sorvegliare la cabina armadio.

Ora, io ho un lavoro, una vita, una quotidianità, a tratti perfino una vita sociale… non posso vivere in balìa di un pennuto folle, che prende decisioni su cose che non sa e non comprende! Eppure, sono giorni che devo mettere sempre gli stessi vestiti – quelli che avevo tirato fuori prima della guerra – perché nella mia cabina armadio non ci posso più entrare. La sentinella non mi lascia passare.

Per aggirare il problema, ho iniziato a mettere negli scatoloni il resto delle cose, ma la guerra è guerra: appena mi distraevo, andava e toglieva quello che avevo messo dentro. Basta, non può andare avanti così, è tempo di finirla.

Eccoci qui, in trenta metri quadri pieni di scatole e cianfrusaglie, a fissarci in cagnesco – io, lui mi fissa in dodesco. Prendo un oggetto e lo metto nella scatola, senza interrompere il contatto visivo. Lui lo prende e lo sposta, facendo altrettanto. Ripeto; ripete. Andiamo avanti così per mezz’ora, due imbecilli che evidentemente non hanno di meglio da fare.

– Ma insomma! Lo vuoi capire o no che dobbiamo lasciare questo appartamento? Non è più nostro, andremo a vivere da un’altra parte; è inutile che insisti. Che diamine insisti poi, si può sapere? –
– A me piace qui, ormai ci ho fatto l’abitudine. Non voglio andare da un’altra parte –
– Ho capito, anche io ci ho fatto l’abitudine, e non credere che mi piaccia fare traslochi… ma tocca cambiare. Il cambiamento non è mai facile, però è parte della vita. Questo lo sai, sì? –
Guarda il pavimento, strusciando una zampetta in cerchio, in uno strano momento introspettivo. Mi siedo accanto a lui, sospirando.
– Senti, lo so che ti mancherà questo buco d’inferno, mancherà anche a me dopotutto. Mi ci sono affezionata, che credi? Ci ho vissuto per un po’, ci sono pezzettini di me sparsi tra le mura e le fughe del pavimento: in questi mesi ci sono stata felice e triste, ci ho sognato; è qui che sono cresciuti i miei progetti, ed è qui che mi hai trovata e siamo diventati… una famiglia –
Mi guarda con degli occhioni tenerissimi, da Gatto con gli Stivali, che non credevo di avergli mai visto prima.


– Sì, dai, lo sai che siamo una specie di famiglia. E questo non cambierà, anche se dormiremo sotto un nuovo tetto. Avrai perfino più spazio per te, pensa! –
– Mmh. Mi prometti che ci saranno delle piante? –
– Ci saranno tutte le piante che vuoi, vere e finte –
– E potrò dormire nel tuo armadio, ogni tanto? –
– Troveremo un modo –
– Dodo? Chi ha detto dodo??? Eccomi, sono io! Bbbbbbbbaaaaaah! –

Spalanca le ali e corre per la stanza, travolgendo tutto quello che incontra.
A volte sembra folle – e in parte lo è davvero -, ma stavolta voleva solo farmi capire che ci sta, senza dirmelo apertamente. Un dodo orgoglione, il MIO dodo orgoglione.

Sarà una nuova, bella avventura insieme, questa. Speriamo solo non voglia essere inscatolato insieme al resto…

Happy New Dodo!

Ho sempre avuto l’abitudine di fare liste e resoconti, nel tentativo di afferrare futuro e passato, o forse semplicemente per non dimenticare da dove vengo e dove vado. Ogni anno, da che ne ho memoria, ho compilato una lista di buoni propositi, rigorosamente scritti a penna per sentirli più miei; ad ogni fine anno, da che ne ho memoria – o da che ho un accesso ad Internet – ho fatto il punto della situazione, per vedere se avevo raggiunto quegli obiettivi, o semplicemente ricordare a me stessa che non ero ferma, dopotutto.

Sembrano tutti diversi, i nuovi inizi, e forse lo sono: questo lo è sicuramente, perché chiude un decennio e un ciclo, almeno per come mi piace vederla.

Dieci anni fa ero spaesata, in una vita che non riconoscevo del tutto, a capire chi o cosa volessi essere. Oggi ho un dodo, che non mi lascia scrivere le mie liste in pace e se mi distraggo mi mangia il copriletto.

Una stellina che il dodo ha voluto tenere in zampa. Poi ne ha voluta un’altra. E poi ha cominciato a correre per la casa, una stella in ogni ala, fingendosi aereo. Di questo non esistono prove fotografiche.

– Che poi, mi chiedo, ma tu come mai sei arrivato giusto ora? Cioè, l’hai progettato il momento o cosa? –
Mi guarda fisso, poi abbozza un sorriso. Non so se l’ho già detto, ma quando un dodo sorride sembra IT prima di uccidere qualcuno. Però ormai mi sono abituata e capisco che il suo non è un ghigno omicida, ma un gesto carino. Nella sua mente, almeno.

– Perché sai, ci ho pensato spesso da quest’estate… se tu fossi arrivato in un altro momento, non so come sarebbero andate le cose. Non so neppure se sarei stata in grado di vederti –
Si acciambella sul mio letto, e mi fissa curioso, con quello sguardo che ancora mi fa chiedere se capisca qualcosa di quello che dico.

– Sì, beh, sono cambiate molte cose, sai? Chissà cosa avresti pensato di me se mi avessi conosciuta prima! Pensa che un tempo non sapevo andare a capo nella stessa riga di Excel, capisci? E poi… beh, ho fatto dei viaggi folli in solitudine; dovrei mostrarti le foto, una di queste volte. Mi sono messa a dieta e mi ci sono tolta varie volte… Ho perso una persona, una volta, sai? Proprio come si perdono le chiavi o l’ombrello; l’hanno trovata giorni dopo che vagava per il centro. Potrei perdere anche te, fai attenzione… Ah, e poi ho conosciuto un sacco di gente strana, alcuni strani dentro, altri strani fuori. Tipo quello che mi disse “Trust me, I’m a doctor”; lo avresti adorato, mi sa. Alcuni li avresti beccati a sangue, e forse avresti fatto bene. Però ecco, guardando indietro a tutta la strada che ho fatto in questi anni, davvero penso: perché ora? Proprio ora che sono così… diversa? –

Mi guarda; sospira, chiude gli occhi, un po’ come quando fa yoga. E di nuovo sento la sua voce nella mia testa, una voce serena e solenne:

– La risposta te la sei data, perché continui a farmi la stessa domanda? Non potevo trovarti prima, non eri pronta. Stavi camminando per arrivare al crocevia, mi è toccato aspettare. A volte sai essere snervantemente lenta, umana. Capisci le cose eppure ti ostini a sbagliare –
– Ah beh, detto da chi mangia piante palesemente finte… –
– Ehm, ehm, non è questo il punto. Io sono un’elegante e antica creatura, non come voi che siete ancora allo stadio zero dell’evoluzione! –
– Posso ricordarti che ti sei estin…-
– E alloooooora! – per un attimo, rivedo Dodo Maionchi. Poi riacquista la calma e respira lentamente: – Basta con questa storia, uno non si può allontanare un attimo che subito ti dichiarano estinto! E in ogni caso non era di me che stavamo parlando… –

Mi fa una gran tenerezza quando sbraita, mi viene voglia di ridere.

– Alcune cose dovevi farle da sola; dovevi capire e questo richiede tempo. Tu poi sei particolarmente ottusa. Ah, e poi dovevi guarire, e questo richiede ancora più tempo –
– Farò finta di non aver sentito che mi hai dato dell’ottusa… Quindi secondo te sono guarita? E da cosa poi? –
Mi guarda, come se mi volesse scrutare dentro. Si avvicina, sempre di più, fino a che i suoi occhi a palla sono vicinissimi ai miei. Apre il becco come se volesse dire qualcosa; poi, sempre telepaticamente sento un – Sotto coperturaaaaaaaaaaa! – accompagnato da un – Babbaaaaaaaaaaaaaaah! – non telepatico.
Gli scoppio a ridere in faccia, come al solito, mentre si mette una coperta sulla testa per andare “sotto copertura”. Una delle sue solite adorabili cose insensate.

Ormai è chiaro: mi spiega fin dove vuole, racconta fin dove vuole, è serio fin quando vuole. Dopo un po’, si annoia e il suo cervello non evoluto si distrae. Questa è una delle cose che adoro in lui. E se è piombato nella mia vita disordinata e disordinaria proprio quest’anno è perché così doveva essere.

Facendo il punto, il 2019 ha portato un dodo nella mia vita. Faccio bene a temere il 2020, vero?

PS: la creatura suggerisce di cambiare il nome da Capodanno a Capododo, in suo onore.

Le avventure di Dodo Natale – parte II

La vita è davvero una questione di attimi, piccoli frammenti di infinito che bastano a cambiare tutto, per sempre. Il tempo che intercorre tra prendere la metro o perderla; tra bere con gli amici e scrivere ubriachi ai vostri ex; tra aprire o no la porta di casa, in una rara sera in cui avete deciso di portare giù carta e cartone.

Se quella sera avessi deciso di farci il fortino con i cartoni – opzione peraltro validissima – invece di assecondare un momento di adultità, forse questo Natale avrei fatto l’albero in pace e il mio gnomo non avrebbe cicatrici.

Gnomo esausto dopo l’incontro con il mio dodo

Andiamo per ordine: eravamo rimasti al pollo che dava l’ok a procedere con le decorazioni natalizie, purché sotto la sua supervisione. Non è che fossi molto convinta, ma di alternative non ce n’erano: per prima cosa, la creatura piumodotata era ormai elettrizzata dal progetto, e di sedarlo non se ne parla; in secondo luogo, dicembre da me significa decorare tutto, le finestre, i mobili, l’albero, i quadri, i divani, la tazza del water, il portone, la signora sotto al portone, l’idrante di fianco al portone. Mi sono ripromessa che il dodo non avrebbe cambiato le mie abitudini, e un paio di volte all’anno cerco di essere coerente con quello che mi riprometto…

Quindi, con immenso coraggio ho posato a terra gli scatoloni, l’ho guardato severamente minacciandolo col dito, quindi ho iniziato ad aprire. Un secondo dopo, i suoi occhi a palla erano a mezzo centimetro dalla scatola.
– Senti, genio incompreso, se metti il becco là lo capisci che non riesco ad aprire la scatola? –
Mi ha guardato, senza spostare la testa da dov’era, facendo una rotazione che io mi ci sarei giocata la cervicale, emettendo uno dei suoi quasi-belati lenti e rauchi.
– Lo vedi che se ci sei tu davanti non si apre? O resta chiuso o ti do una scatolata in un occhio. Vuoi una scatolata in un occhio?-
Blblblblblb – e incerto ha alzato la testa, solo quel tanto che bastava ad aprire la scatola, continuando a lanciarmi occhiate indagatrici. Non è convinto che lo lascerò partecipare, e a quanto pare ‘sta cosa del Natale affascina pure lui.

Ho tirato fuori le prime palline con terrore, certo che sarebbe piombato su di me o su di loro blaterando a caso e rompendo tutto. Invece no: mi ha osservato, intelligente come sempre, e ha aspettato di vedere cosa facessi. Così, un po’ più tranquilla, ho iniziato a mettere qualche pallina sul triste albero cinese; lui, in silenzio, guardava, ripercorrendo i miei passi dalla scatola all’albero.

Come sarebbe il mio albero se non vivessi con un pollo

Dopo qualche minuto, l’ho visto brillare (non come in Twilight, ma di gioia); aveva capito il meccanismo, quindi ora poteva partecipare. Eh.
Io a volte me lo chiedo se siamo spiati nelle nostre case. No, perché se lo siamo, quel giorno qualcuno ha riso di certo, vedendo me con le corna da renna e il dodo col cappello di Babbo Natale, che decoravamo un albero striminzito, canticchiando – io – e grugnendo – lui – sulle note di Bing Crosby, litigando di tanto in tanto sulla posizione delle decorazioni. Perché ovviamente il mio dodo ha anche delle preferenze sulla collocazione delle palline, non sia mai poi si guasta l’armonia…

Siamo andati avanti così per circa 30 palle, due scatole di funghetti rossi (che ha prontamente tentato di mangiare), una fila di lucine, un pacco di fili d’angelo, 6 stelle, 7 angioletti e un pennacchio. Poi è stata la volta del presepe, che a casa mia è inclusivo: tra gli altri possiamo trovare una Winx, dei Puffi, un Power Ranger, un soldatino a cui manca una gamba, un Fiammiferino calvo e una Polly Pocket rimasta senza casa: dopotutto, se vogliamo credere che il bambinello sia venuto a portare speranza, la porta a tutti, non solo a quelli belli e in scala.

Un po’ di muschio qua e là, muschio tra la mucca, l’asino e la giraffa (anche lei presente); muschio sul bordo del laghetto; muschio nel camino, pure se si ottura; muschio in bocca al dod- No, sputa che ti fa male!!!-
Ok, niente neve spray: con tutti i metalli pesanti che ci sono, mi manca solo che il pennuto la sniffi e diventi superdodo. No.

Stava andando tutto bene – quanto può esserlo una situazione del genere – finché dalla scatola non è emerso lo gnomo rosso barbuto che metto vicino al termosifone. Non credo di aver mai visto il dodo tanto arrabbiato: ha lanciato un grido di guerra e si è avventato sul povero gnomo, beccandolo ripetutamente prima che riuscissi a toglierglielo dalle piume. L’ho ricucito e ho spiegato al coso che non è una minaccia: si è calmato, ma quando gli passa davanti ancora gli lancia occhiatacce, blaterando a bassa voce, col cappello di Babbo Natale sulle ventitrè. Cappello con cui, ormai, dorme.

Natale con Mossad-dodoit’s the most wonderful time of the yeaaaaaaaaaaaar!
(alcool, mi serve molto alcool).

Le avventure di Dodo Natale – parte I

(si suggerisce utilizzo di It’s the Most Wonderful Time of the Year“)

Pensavo che il plank fosse la cosa più difficile al mondo. O dire “li vuoi quei kiwi?” velocemente. Leccarsi i gomiti. Perdonare chi ci ha ferito. Contarsi i capelli. Fare a piedi il Camino di Santiago andata e ritorno.

Bene: posso dire con certezza che nessuna di queste attività è lontanamente paragonabile al fare un albero di Natale quando hai un dodo, o un dodo ha te.

– Guarda che quando hai un gatto è lo stesso, eh! –

No, miei cari, no. Perché il gatto, dall’alto della sua sapienza e del suo sdegno per il genere umano, attende il momento in cui l’albero è finito per distruggere i vostri sforzi. Mentre addobbate vi osserva, scodando in giro con disgusto, squadrandovi come qualcosa che nella catena alimentare si colloca tra un’ameba e uno stercorario; non partecipa, non gli interessa, poiché tanto lavoro poco si addice alle sue regali zampe. Quando poi avrete terminato, esso attenderà nell’ombra: spierà, si apposterà, celato dal buio della notte, e infine lancerà il suo attacco sul povero indifeso arbusto, spelacchiato e plasticoso, che avete comprato dal cinese perché siete troppo poveri anche per permettervi l’albero nano dell’Ikea.

Il gatto come metafora della vita, che quando aggiusti tutto ti prende a zampate solo per gioco; che ti ci fa credere fino in fondo e poi, quando hai messo pure le lucine e il pennacchio, distrugge i tuoi sogni. (NdL: la vita in fondo è bellissima, voglio che sappia che la amo. Che se mi legge se no poi si incazza e si apposta tra i rami mentre dormo…). Il gatto non da fastidio durante il processo creativo, se la prende col prodotto finito.

Il dodo, NO. Lui è curioso, ficcanaso, rompipalledinatale, convinto di essere utile o semplicemente troppo impiccione per stare con le sante zampette a posto. Sapevo che sarebbe stato complicato, ma da inguaribile ottimista quale sono, avevo sperato.

Avrei dovuto saperlo dalla musica, apparsa dal nulla mentre tiravo fuori l’armamentario: una musica sepolcrale, non saprei dire se presente solo nella mia testa o anche fuori. Ormai, con un dodo tra i piedi, potrebbe tranquillamente esserci un organista nel cassettone del letto, pronto a suonare quando si avvicinano le apocalissi. Un po’ come il violinista che mi segue da anni, e che interviene per dare maggiore enfasi alle mie facce basite.

Dicevamo: io che mi accingo a tirar fuori gli addobbi dal ripostiglio, suona il requiem, il dodo aguzza i sensi, crescendo musicale, finale con me e le scatole, faccia a faccia col pennuto.

– Coso, capiamoci: io devo decorare per Natale, ok? So che non sai cosa sia Natale, so che magari manco t’importa, ma fregamazza: a casa mia, si decora. Se non ti sta bene, puoi sempre trasferirti dai Brambilla, al piano di sopra, che non comprano nemmeno una lucina e fanno piangere pure il Grinch. Se decidi di restare, abituati a settimane di luci, pallette colorate, profumo di biscotti e Michael Bublé a palla e non azzardarti a parlarmi di consumismo e multinazionali. Intesi? –

I suoi occhi diventano una fessura, come sempre quando mi sta studiando. Giurerei che quando fa così metta le ali sui fianchi, in una posa così simile a quella di mia madre da farmi venire l’ansia, in un riflesso pavloviano. Con una specie di rauco belato di sottofondo (a volte bela, non fate domande), si avvicina lentamente a me e ai pacchi. Godzilla era più veloce, giuro. Ci osserva, ci giudica, ci annusa, come un genitore che cerca di capire se il figlio fumi di nascosto: solo che qua al posto del fumo ci sono innocue palle di Natale, fili d’angelo e lucine cinesi, che al massimo puzzano di plastica sciolta.

Mi si pianta davanti: fissa me; i pacchi; me; i pacchi; me; di nuovo me perché si sta iniziando a confondere da solo; i pacchi. E proprio mentre temo che ci vorranno altre tre ore di ‘sta manfrina, si siede a terra, a zampe aperte, come i bambini sul tappetino da gioco prima di gattonare.

Vedendo che non mi muovo, mi fa un cenno con un’ala a mezz’aria, accompagnato da un suono simile a un – Bbbbbaaah! – .

Dodo del Monte ha detto : posso decorare, purché sotto il suo sguardo vigile.

Prendo ordini da un pennuto scemo che mangia piante finte (e – SPOILER – muschio finto). E se questo vi è sembrato semplice, è perché non avete ancora visto il resto…