Pane, amore e Dawson’s Creek

– E allora che cosa siamo, Dawson?-

Ed eccolo, l’inizio della fine. Il punto di non ritorno, quello che segnerà per sempre i nostri destini sentimentali di trentenni e poco-più-che-trentenni; il momento in cui quella spilungona di Joey Potter chiede al suo scialbo amico d’infanzia di definire il loro rapporto. Stagione 1, puntata 13. Un disastro annunciato.

Ma andiamo per ordine, e capiamo come siamo arrivati fin qui: è estate, fa caldo e, all’indomani di una frequentazione finita, mi sono ritrovata a condurre le mie personali riflessioni sulla mia generazione e i rapporti, principalmente (ma non solo) amorosi. Noi over 30 sembriamo spaesati più di un branco di capre in autostrada, e dovranno pur esserci delle spiegazioni: sarà stato l’olio di palma nelle merendine? I metalli tossici che abbiamo aspirato insieme al Crystal Ball? Sarà stata l’influenza di Chernobyl? O gli effetti socioeconomici della Guerra del Golfo?
Assorbita da queste domande e dal mio bicchiere di orzata fredda, ho pensato bene di lanciarmi in un rilassante rewatch estivo: volevo tornare ai bei tempi in cui ero adolescente, in vacanza dalla scuola e bombardata dalle repliche su tutti i canali Mediaset, quando Italia Uno usava “Vamos a bailar” di Paola e Chiara per pubblicizzare le cose che avrebbe trasmesso a settembre. I tempi in cui per una nuova stagione occorreva aspettare MESI.
Ed è stato così, scorrendo tra i titoli di Netflix, che sono finita in quel buco nero che è il Creek di Dawson. Di nuovo.

Logo del teen trauma di fine anni ’90

Poche puntate, e il creek è diventato un cric che mi ha colpito sul lobo frontale: come potevamo venir su emotivamente stabili se a formare il nostro senso delle relazioni ci hanno messo Dawson’s Creek? Già, di base, non c’è mai stato un teen drama che rappresentasse realmente gli adolescenti a cui si rivolgeva: succede ogni volta che qualcuno scrive di ciò che pensa di sapere e non di ciò che sa (adulti che scrivono dell’essere adolescenti, uomini che scrivono dell’essere donna, americani caucasici che scrivono dell’essere afroamericani, e così via). Ma non bastava questo, no: a noi è andata peggio.

Quelli un po’ più grandi di noi hanno avuto il bello e dannato in giacca di pelle, le reginette della scuola belle e bionde e gli amici un po’ sfigati, che si muovevano incerti tra il Peach Pit e gli eccessi di Beverly Hills; quelli un po’ più giovani di noi abbordavano le Marisse Cooper del mondo con l’intramontabile e spavaldo “Chiunque tu vuoi che io sia”; quelli ancora un po’ più giovani, imparavano l’amore tossico da Chuck e Blair, che si prendevano e lasciavano continuamente sullo sfondo dell’Upper East Side. Un po’ come Carrie e Big, ma con vent’anni in meno e molti soldi in più.
E noi?

Noi eravamo lì, intenti a evadere dalle nostre asfissianti cittadine di provincia, quando qualcuno ne ha presa una che le racchiudeva tutte e ce l’ha sparata in prima serata, dicendoci “ecco, questi siete voi, parliamo di voi!”.
Così ci sono toccate estenuanti sessioni di psicoterapia televisiva a basso costo, costanti ricerche di sè stessi – che poi, a sedici anni, chi si è mai trovato? -, pipponi mentali indegni perfino degli Harmony più brutti, e una pesantezza emotiva che non auguro a nessun adolescente.

E, giusto alla fine della prima stagione, proprio nell’ultima puntata, dopo ore di sfibranti battibecchi e autoanalisi, ecco iniziare le nostre crisi esistenziali: Joey chiede a Dawson cosa siamo?, aprendo la strada a un’intera generazione di donne che faranno la stessa domanda, più e più volte, solo per sentirsi rispondere con gli stessi monosillabi spezzati e la faccia di un cervo che vede avvicinarsi i fari della jeep che lo investirà.

Anni dopo, mentre “persino Spielberg ha superato il complesso di Peter Pan”, i Dawson della nostra vita continuano a fare i Dawson, con i loro urticanti faccini lacrimosi, i capricci da figlio unico viziato e l’incapacità di prendersi delle responsabilità – i geni del buon Mitch Leery devono aver saltato una generazione, o non si spiega. E noi lì, ancora e ancora, a fare le eterne Joey Potter, novelle Wendy di fine anni ’90 che anzichè attendere Peter alla finestra si arrampicano su per la sua, con meno eleganza, meno creatività e un mucchio di drammi in più dell’originale.

E quando finalmente rinsaviamo e usciamo da questo eterno loop di indecisione e paralisi, facciamo l’unica cosa saggia, quella che andava fatta fin dall’inizio. Scegliamo Pacey.


Il Porto Proibito

Particolarmente indicato per:
Sognatori e sognatrici con una passione per le atmosfere marinaresche.

Cosa ci troverò?
Poesia, coraggio, lo scroscio delle onde sulla riva, la potenza dell’oceano che chiama, il dolore della perdita, la dolce nostalgia del ricordo.


Ho sempre pensato che giungessimo ai libri – o i libri giungessero a noi – nel momento esatto in cui avevamo bisogno di loro; non so se valga per tutti o solo per i lettori accaniti, quelli che si curano a colpi di carta stampata, ma c’è una sorta di magia nel modo in cui le storie ti trovano esattamente quando serve.
Ecco, con Il porto proibito è stato esattamente così: mi ha trovata naufraga in alto mare e in qualche modo mi ha riportata a casa, prima ancora che mi rendessi conto di essere alla deriva.

Che cos’è, esattamente?

Si tratta di una graphic novel del 2015, figlia della collaborazione – artistica e non – tra Stefano Turconi e Teresa Radice, edita da Bao Publishing (e che consiglio di acquistare nella bellissima Artist Edition, se ancora si trova!). Nel 2016, la novel ha vinto il Gran Guinigi a Lucca Comics & Games come “Miglior Graphic Novel” e il Premio Micheluzzi al Napoli Comicon come “Miglior Fumetto”.

Perché dovresti leggerlo?

Innanzitutto per scoprire il mistero legato al porto proibito, un luogo non-luogo, un posto dell’anima che appare e scompare nella nebbia. Non tutti possono vederlo giacché, come dice il vecchio marinaio Monroe, chi l’ha raggiunto non è di certo tornato per raccontarlo. Perché non sei tu che scegli di entrare al Porto… è il Porto che sceglie te.

A Plymouth, nel 1807, Abel, giovane naufrago senza memoria, e Rebecca, tenutaria del Pillar to Post, il bordello locale, incroceranno per caso i loro cammini e si riconosceranno, perché entrambi sono passati dal porto ed entrambi vi dovranno fare ritorno…

Ma Il porto proibito non è la storia di Abel, né di Rebecca: è una storia corale, à la Altman, in cui ogni figura contribuisce a costruire un mosaico affascinante, vivido, complesso e terribilmente umano. Quello che Turconi e Radice creano è un modo brulicante di personaggi, familiari ed esotici al tempo stesso, che ti entrano dentro con tanta forza da spingerti a prendere una pala per scavare nei loro passati e trovare il tesoro che portano con sé. Da dove vengono? Quali strade hanno calpestato? Che ne sarà di loro quando l’ultima pagina sarà stata voltata?

I personaggi

Ci sono le ragazze del Pillar to Post – a cui, per giunta, sono già stati dedicati due meravigliosi spin-off, Le ragazze del Pillar I e II -, bellissime, profumate (anche i profumi riescono a raggiungerti da queste pagine), con corpi morbidi e anime di metallo, che si guardano le spalle quasi come sorelle. Con i suoi capelli di fuoco e una spiccata passione per la poesia, è Rebecca a tenerle unite e a proteggerle da quel mondo crudele che le ha messo negli occhi una tristezza che nessuno può sciogliere né capire.

Ci sono le tre sorelle Stevenson, con la loro fede incrollabile e ingenuità disarmamante, occupate a mandare avanti a fatica la locanda di famiglia dopo che il loro padre, il Capitano Stevenson, è fuggito – così si dice – con un tesoro, tradendo la patria e l’equipaggio della HMS Explorer.

C’è Nathan McLeod, il capitano di quella Last Chance che ha salvato Abel dai flutti, un omone grande e grosso, con il cuore vasto quanto l’oceano intero. Ama la bella Rebecca di un amore puro, che lei ricambia con la stessa intensità. Sono i loro gli sguardi più belli e intensi della novel. E sono sue, di Nathan, le parole che più mi sono risuonate dentro la prima volta che ho sfogliato queste pagine.
Parlando con il suo vice, Yasser Allali, McLeod racconterà di come per anni abbia desiderato essere come il mare, libero e slegato da tutto: perché se non hai a cuore nulla resti inattaccabile dalle tragedie, inaffondabile. E poi a un certo punto succede, e te ne rendi conto: ero pieno, pieno di… mancanza. Mi ero riempito di assenze, e mi pesavano addosso senza che riuscissi a scrollarmele via perché… come puoi liberarti di quel che non hai?

Cosa ha lasciato a me

Da L’isola del Tesoro a Master and Commader, dalle sea shanties dimenticate a Wordsworth e Coleridge, da Shakespeare alla Bibbia, tutto ciò che sul mare e del mare è stato scritto, detto, composto o musicato confluisce in qualche modo qui, arriva fino al porto proibito, e ne fa la sua casa. La matita soave di Stefano Turconi plasma per noi un mondo in bianco e nero, nato dai rottami recuperati tra i naufragi del tempo, e ne fa velieri, pirati, mari in tempesta, cittadine di mare, il tutto disposto con grazia estrema in tavole di una bellezza sconvolgente; la penna potente di Teresa Radice lo popola di storie così vere e umane e affascinanti che mi spingono a tornare a Plymouth periodicamente, sulle note di violini e vecchie ballate, come un appuntamento a cui non posso mancare.

Nelle ultime pagine ho trovato una delle lettere d’amore più belle che potessi leggere, e una promessa: coloro che amiamo e abbiamo perduto non sono più là dov’erano, ma dovunque noi siamo.
A te, che non sei finit* qui per caso, dico fatti un favore e sfoglia queste pagine. E dopo, solo dopo, spiega le vele.

L.