– E allora che cosa siamo, Dawson?-
Ed eccolo, l’inizio della fine. Il punto di non ritorno, quello che segnerà per sempre i nostri destini sentimentali di trentenni e poco-più-che-trentenni; il momento in cui quella spilungona di Joey Potter chiede al suo scialbo amico d’infanzia di definire il loro rapporto. Stagione 1, puntata 13. Un disastro annunciato.
Ma andiamo per ordine, e capiamo come siamo arrivati fin qui: è estate, fa caldo e, all’indomani di una frequentazione finita, mi sono ritrovata a condurre le mie personali riflessioni sulla mia generazione e i rapporti, principalmente (ma non solo) amorosi. Noi over 30 sembriamo spaesati più di un branco di capre in autostrada, e dovranno pur esserci delle spiegazioni: sarà stato l’olio di palma nelle merendine? I metalli tossici che abbiamo aspirato insieme al Crystal Ball? Sarà stata l’influenza di Chernobyl? O gli effetti socioeconomici della Guerra del Golfo?
Assorbita da queste domande e dal mio bicchiere di orzata fredda, ho pensato bene di lanciarmi in un rilassante rewatch estivo: volevo tornare ai bei tempi in cui ero adolescente, in vacanza dalla scuola e bombardata dalle repliche su tutti i canali Mediaset, quando Italia Uno usava “Vamos a bailar” di Paola e Chiara per pubblicizzare le cose che avrebbe trasmesso a settembre. I tempi in cui per una nuova stagione occorreva aspettare MESI.
Ed è stato così, scorrendo tra i titoli di Netflix, che sono finita in quel buco nero che è il Creek di Dawson. Di nuovo.
Poche puntate, e il creek è diventato un cric che mi ha colpito sul lobo frontale: come potevamo venir su emotivamente stabili se a formare il nostro senso delle relazioni ci hanno messo Dawson’s Creek? Già, di base, non c’è mai stato un teen drama che rappresentasse realmente gli adolescenti a cui si rivolgeva: succede ogni volta che qualcuno scrive di ciò che pensa di sapere e non di ciò che sa (adulti che scrivono dell’essere adolescenti, uomini che scrivono dell’essere donna, americani caucasici che scrivono dell’essere afroamericani, e così via). Ma non bastava questo, no: a noi è andata peggio.
Quelli un po’ più grandi di noi hanno avuto il bello e dannato in giacca di pelle, le reginette della scuola belle e bionde e gli amici un po’ sfigati, che si muovevano incerti tra il Peach Pit e gli eccessi di Beverly Hills; quelli un po’ più giovani di noi abbordavano le Marisse Cooper del mondo con l’intramontabile e spavaldo “Chiunque tu vuoi che io sia”; quelli ancora un po’ più giovani, imparavano l’amore tossico da Chuck e Blair, che si prendevano e lasciavano continuamente sullo sfondo dell’Upper East Side. Un po’ come Carrie e Big, ma con vent’anni in meno e molti soldi in più.
E noi?
Noi eravamo lì, intenti a evadere dalle nostre asfissianti cittadine di provincia, quando qualcuno ne ha presa una che le racchiudeva tutte e ce l’ha sparata in prima serata, dicendoci “ecco, questi siete voi, parliamo di voi!”.
Così ci sono toccate estenuanti sessioni di psicoterapia televisiva a basso costo, costanti ricerche di sè stessi – che poi, a sedici anni, chi si è mai trovato? -, pipponi mentali indegni perfino degli Harmony più brutti, e una pesantezza emotiva che non auguro a nessun adolescente.
E, giusto alla fine della prima stagione, proprio nell’ultima puntata, dopo ore di sfibranti battibecchi e autoanalisi, ecco iniziare le nostre crisi esistenziali: Joey chiede a Dawson cosa siamo?, aprendo la strada a un’intera generazione di donne che faranno la stessa domanda, più e più volte, solo per sentirsi rispondere con gli stessi monosillabi spezzati e la faccia di un cervo che vede avvicinarsi i fari della jeep che lo investirà.
Anni dopo, mentre “persino Spielberg ha superato il complesso di Peter Pan”, i Dawson della nostra vita continuano a fare i Dawson, con i loro urticanti faccini lacrimosi, i capricci da figlio unico viziato e l’incapacità di prendersi delle responsabilità – i geni del buon Mitch Leery devono aver saltato una generazione, o non si spiega. E noi lì, ancora e ancora, a fare le eterne Joey Potter, novelle Wendy di fine anni ’90 che anzichè attendere Peter alla finestra si arrampicano su per la sua, con meno eleganza, meno creatività e un mucchio di drammi in più dell’originale.
E quando finalmente rinsaviamo e usciamo da questo eterno loop di indecisione e paralisi, facciamo l’unica cosa saggia, quella che andava fatta fin dall’inizio. Scegliamo Pacey.