Living with a dodo I

È passata circa una settimana da quando la creatura polliforme è apparsa sul mio zerbino, dritto dal passato, in piume e ossa. Questi giorni sono stati una continua montagna russa tra “lo tengo”, “lo porto al canile più vicino e lo lascio lì”, “è sofficiffimo, voglio che viva con me per sempre” e “potrei portarlo in un bosco e scappare via”. A mia discolpa va detto che:

  1. è da un pezzo che non condivido la casa con altri esseri che occupino più di un vaso. Non credo che il dodo si lascerebbe piantare senza protestare;
  2. è difficile vivere – o anche solo pensare di farlo – con una creatura estinta, che i più ritengono preistorica, e di cui si sa ben poco;
  3. sfamare questo coso è complicato. Di certo non posso andare al supermercato e comprare la Purina per i Labrador; rischio di avvelenarlo, e poi chi glielo spiega al portiere perché ho un cadavere di dodo in casa?

Che poi, ammesso che volessi tenerlo a vivere con me, il pennuto non parla e io non so come prendermene cura. Quanto vorrei avere Piero Angela sottomano, in momenti come questo…

Intanto, mentre valuto come chiedere aiuto senza che mi si faccia il TSO, lo tengo qui con me, nella speranza di capirci qualcosa. Cerco di intuire le sue abitudini: appena arrivato gli ho chiesto “Be’, ma tu dormi, no?”. Mi ha fissato. A lungo. Molto a lungo. Poi, mentre le stagioni si susseguivano fuori dalla mia finestra e i miei capelli si imbiancavano, ha smesso di fissarmi e si è messo a zompettare per la stanza, in preda a una crisi indefinita, con passi rapidi accompagnati da versi che vorrei poter registrare.

All’improvviso, si è fermato al centro e lentamente si è accovacciato. Un lampo mi ha attraversato il cervello: l’ho afferrato di colpo, sollevato – quanto il suo peso mi permetteva – e portato in bagno mentre gridavo “FERMOFERMOFERMOFERMOOOO!”. Giusto in tempo. Avrei avuto la casa piena di escrementi dòdici.

La storia dello scarico deve essergli piaciuta, perché è rimasto a fissarlo tutto il pomeriggio, affascinato, cercando di azionarlo prima con un’ala, poi con una zampa. Un tonfo mi ha fatto capire che si era ribaltato in orizzontale: non aveva valutato che se sollevi una zampa così in alto e non hai l’estensione di Carla Fracci, perdi l’equilibrio e cadi. Ore dopo – intanto ho una vita, non potevo restare accanto al water con un dodo testardo – l’ho sentito gioire. Almeno credo. Sentivo un “Blblblblblb” dal tono felice; l’ho trovato che, compiacendosi, scaricava col becco e poi mi guardava tronfio. Se avesse appena salvato il mondo sarebbe stato meno fiero.

L’ho portato fuori dal bagno prima che consumasse le riserve idriche dell’intero paese. Intanto, il fatto che avesse imparato ad usare il bagno mi aveva talmente sconvolto che, in un momento di estremo ottimismo, ho inziato a ripetergli “BA-GNO” come si fa con i bambini. “Prova a dirlo, BA-GNO. Su, ripeti con me, BA-GNO”. Mi ha fissato a lungo. Di nuovo. Altre stagioni si sono susseguite. Lentamente – alle volte sembra un bradipo, più che un dodo – Si è avvicinato. Ha inclinato la testa più volte. Poi ha aperto il becco e, copiando la mia cadenza, ha detto “BL-BL!”. Mi ha leccato la faccia e se n’è andato a girare per la stanza, sorridente.

Vivo con un dodo che usa il water e non parla. Vivo con un dodo che dorme tra i miei vestiti – di questo parleremo nella prossima puntata. Vivo con un dodo. Il TSO sembra sempre più vicino.

Le origini del mito

Questa storia inizia nel ‘500, quando i viaggi di esplorazione verso terre extraeuropee erano all’ordine del giorno, diffusi più dei funghi in autunno nelle valli bergamasche. Ben prima di fashion bloggers, dj, influencers e ph., il lavoro più alla moda era uno soltanto: l’esploratore.

“Ma quindi, tuo figlio, cusa l’é che fa?” “Be’, fa l’esploratore. In pratica, sai, viaggia molto, scopre nuovi territori, colonizza nuove popolazioni, scrive diari… vede cose, conosce gente. Un bel mestiere insomma, siamo fieri di lui!” “Ah. Quindi l’è disoccupato, eh?” “Eh. Andiamo a farci una bevuta, va'”.

In tantissimi partivano dall’Europa, carichi di speranze e progetti di grandezza, che si sarebbero tradotti in malattie, febbri, accoltellamenti, ammutinamenti e, di tanto in tanto, morte violenta.

Fu proprio durante questi viaggi esplorativi che, in quel delle Mauritius, dei viaggiatori incontrarono una creatura nota come dodo: un volatile non volante (come si può dire in questi casi? Camminante? Andante?), di circa 23 kg di peso, con un folto piumaggio, becco ricurvo e sguardo diversamente intelligente. Un incrocio tra un tacchino, un tucano e uno scaldabagno, insomma.

Gli esploratori non lo sapevano ancora, ma avevano incrociato il cammino di una creatura mitologica dagli immensi poteri, poteri così misteriosi che… non si capì mai cosa sapesse realmente fare. A causa delle sue scarse doti di adattamento e del contatto con gli umani, nel 1681 il dodo si estinse: così finiva la sua grandiosa avventura, prima ancora che potesse iniziare.

Almeno, questo era quello che credevo anch’io finché non me lo sono ritrovato davanti, in piume e ossa. Stavo uscendo per buttare la spazzatura quando, trecentotrent’otto anni dopo, un dodo è apparso alla mia porta in tutto il suo splendore: piume al vento, fisico grassoccio, becco ricurvo e sguardo di una triglia appena pescata. Chi avrebbe saputo resistere a tanta tenerezza?

E così, è da qualche giorno che l’ho adottato – o lui ha adottato me, stiamo ancora decidendo. Sicuramente pian piano verranno fuori i suoi poteri, le sue abilità, ma al momento ammetto di sapere molto poco di lui: non so neppure esattamente cosa dargli da mangiare. So che quando beve mi allaga la casa, che quando gli parlo inclina la testa e mi osserva basito, e che se non lo metto nella giusta direzione continua a camminare contro i muri, come in SuperMario Bros.

A pensarci bene, forse avrei dovuto lasciarlo sul pianerottolo…